Le elezioni negli USA hanno visto la vittoria del repubblicano Donald Trump in una tornata elettorale tra le più partecipate dal secondo dopoguerra.
Altro dato significativo della vittoria repubblicana è quello relativo al voto “popolare”, dove l’elettorato femminile, afroamericano e ispanico ha penalizzato il Partito Democratico disertando le urne oppure rivolgendo le proprie preferenze a Trump che, forte di una vittoria che gli garantisce il controllo del Senato e della Camera, si appresta a realizzare ciò che non riuscì a compiere nel primo mandato del 2016.
D’altronde “il buon giorno si vede dal mattino”: la necessità di contenere il deficit pubblico più ampio del mondo, costantemente incrementato dalle crescenti spese militari, muove verso la composizione di una squadra di governo all’altezza delle necessità, per cui saranno uomini e donne dai chiari intenti reazionari che procederanno a realizzare il programma elettorale di Trump.
Così è che in materia di semplificazione burocratica la nomina di Musk a capo del “Dipartimento per l’efficienza governativa” prelude a una massiccia informatizzazione della Pubblica Amministrazione USA che produrrà migliaia di licenziamenti e la riduzione dei servizi sociali essenziali, quali istruzione e sanità, per le categorie più povere. La difesa ambientale subirà un notevole ridimensionamento così come la regolamentazione del lavoro; per la tassazione dei profitti aziendali è prevista un’ulteriore riduzione; per garantire la sicurezza interna si incrementeranno i provvedimenti repressivi mentre, sul fronte dell’immigrazione, si annuncia il più vasto piano di espulsioni mai varato prima.
Per quanto concerne le relazioni internazionali le intenzioni di Trump sono quelle di contrastare efficacemente la penetrazione della Cina nel mercato mondiale.
Ma la questione non è semplice, poiché la Cina è la seconda potenza mondiale e svolge un ruolo preminente nei BRICS, una realtà in rapida ascesa e destinata a contrapporsi al G7 in quanto esprime il 26% del PIL mondiale, che sale potenzialmente al 35,6% se si considera anche quello dei paesi che in Asia, Africa, America Latina e in Europa hanno già inoltrato l’adesione ai BRICS.
Una realtà quindi tutt’altro che sottovalutabile essendo potenzialmente in grado di rappresentare il 45% della popolazione mondiale.
Inoltre la politica estera della Cina si muove anche nei confronti del continente latinoamericano: nel recente viaggio in Perù del premier cinese Xi Jinping si è proceduto all’inaugurazione del grande porto di Chancay costruito, su finanziamento cinese, sulla costa pacifica peruviana e che fungerà da fondamentale punto di riferimento per le relazioni commerciali tra Cina e America Latina, insidiando così direttamente importanti interessi USA nell’area continentale latinoamericana.
E’ anche possibile, poi, che l’amministrazione Trump affronti la questione della guerra in Ucraina in termini di disimpegno. La recente decisione del presidente USA Biden di autorizzare l’utilizzo dei missili Atacms a lungo raggio in territorio russo, suona come l’ultimo atto di un’amministrazione sconfitta che intende lasciare un’eredità avvelenata incurante delle conseguenze sulla pace mondiale: come se non bastasse l’eredità delle due guerre recenti e terribili in corso in Ucraina ai confini dell’Unione europea e in Medio Oriente.
Ma questa è solo una delle interpretazioni circa le prospettive dell’attuale competizione imperialista che presenta scenari inediti e, in un simile contesto Trump non è certo un pacifista: contrasta il partito trasversale della guerra, nella fattispecie “l’escalation” in Ucraina, in quanto intende trattare la pace con la Russia allo scopo di separarla dalla Cina, lasciando così l’incombenza economica e politica degli aiuti militari all’Ucraina alla subalterna Europa per indebolirla ulteriormente, al fine di concentrarsi al meglio sugli aiuti a Israele, direttamente impegnato nella guerra in Medio Oriente, uno degli scenari più critici del pianeta.
Anche negli USA, quindi, si consolida la destra conservatrice nelle sue aspirazioni più reazionarie.
E’ comunque importante sottolineare che, per quanto negli USA si assista a una interessante ripresa del sindacalismo, sia per quanto riguarda le lotte che per l’estendersi dell’organizzazione sindacale, intere aree sociali colpite dall’erosione dei salari a causa dell’inflazione hanno voltato le spalle al partito democratico. Questo non è stato in grado di interloquire con gli strati sociali più deboli, perché le sole conquiste civili scisse dalla difesa degli interessi materiali delle classi meno abbienti non producono progresso, ma minano la consapevolezza sociale creando le premesse della reazione.
Un fenomeno analogo è avvenuto anche in numerosi stati dell’Unione Europea: in Spagna con Vox; in Ungheria con Orban; in Austria con l’FPO; in Francia con l’ascesa del FN della Le Pen e in Italia, laddove strati operai e proletari hanno votato Lega e FdI, sostenendo con il proprio voto l’attuale maggioranza di governo di chiara estrazione neofascista.
Anche in Germania le precedenti tornate elettorali hanno visto la progressiva ascesa della neonazista AFD specialmente nei land ex DDR. La crisi economica tedesca, accelerata dal blocco del gas e del petrolio russi a prezzi contenuti a causa della guerra in Ucraina e dalla crisi del mercato dell’auto, in particolare di quello cinese, ha poi inevitabilmente travolto i fragili equilibri governativi. Le elezioni politiche del prossimo febbraio non saranno un banco di prova per la sola Germania, ma anche per i deboli assetti dell’intera Unione Europea che deve anch’essa fronteggiare una crisi analoga.
Queste considerazioni rimandano alla crisi reale e generalizzata della democrazia borghese nei paesi a capitalismo maturo: una crisi che da tempo sta dilagando anche in Europa e che si è dimostrata capace di contaminare realtà emergenti quali, ad esempio, quelle latinoamericane.
La crisi della democrazia borghese non si configura come una crisi tecnica del modello democratico, suscettibile di essere arginata con qualche riforma parziale o totale dei riferimenti costituzionali, ma bensì come parte integrante della crisi capitalistica in atto, capace di travolgere le istituzioni costituzionali medesime. Una crisi che la borghesia cerca di arginare da una parte scaricando i costi sulle componenti sociali più deboli e meno tutelate e, dall’altra, sostenendo, o comunque non ostacolando, l’emergere di forze politiche di stampo reazionario, nel quadro di un’aspra competizione imperialistica tra potenze per il controllo del mercato mondiale.
Quest’ultima è una implicazione fondamentale che non deve essere omessa poiché orienta l’azione delle potenze capitalistiche e dei loro Stati, che muovono le une contro le altre concentrando la ricchezza sociale prodotta dallo sfruttamento della forza lavoro e indirizzata verso una finanziarizzazione esasperata che produce, a sua volta, la militarizzazione delle società rendendo credibile, per la prima volta dal secondo dopoguerra, il generalizzarsi dei conflitti localizzati in circa cinquanta aree del pianeta in uno di scontro diretto tra potenze capace di scatenare il terzo conflitto mondiale.
Paventare la guerra non significa spargere allarmismo, ma ammonire circa le prospettive distruttive dell’attuale modello capitalistico di sviluppo che deve essere mostrato in tutta la sua brutalità.
Al riguardo le vicende della COP 29 celebrata recentemente a Baku sono estremamente indicative, in quanto vedono le emissioni non diminuire ma bensì aumentare con un generalizzato incremento del consumo delle risorse energetiche fossili.
Ciò non si verifica per una scelta ideologica o per “l’incoscienza umana”, per l’imbecillità diffusa o per qualche altro accidente, ma semplicemente perché il capitale segue le sue necessità vitali che si orientano nella produzione e nell’accumulazione del profitto in una logica esasperata.
E quando questo profitto è enorme le conseguenze sugli assetti del pianeta, per quanto drammatiche possano essere, sono per il capitale del tutto trascurabili.
Così come d’altronde prefigurava Karl Marx oltre 150 anni or sono, con parole ancora oggi di grandissima attualità:
“Il capitale – dice uno scrittore della “Quarterly Review” – fugge il tumulto e la lite ed è timido per natura. Questo è verissimo, ma non è tutta la verità. Il capitale aborre la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo, come la natura aborre il vuoto. Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace. Garantitegli il dieci per cento, e lo si può impiegare dappertutto; il venti per cento, e diventa vivace; il cinquanta per cento, e diventa veramente temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane; dategli il trecento per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca. Se il tumulto e le liti portano profitto, esso incoraggerà l’uno e le altre. Prova: contrabbando e tratta degli schiavi’ (T. J. DUNNING).” (Karl Marx: citato in “Il Capitale” libroI ,sez.VII, cap 24)
Il capitale non si ferma quindi di fronte a nulla: né alla guerra né alla distruzione dell’ambiente.
La “banda Trump”, con i suoi miliardari al seguito, è il frutto esasperato e coerente di questa contingenza storica destinata comunque a fare scuola: non è quindi questione di follia.
Inoltre, affermare che l’imperialismo USA è il principale responsabile del riscaldamento globale significa cogliere solo una parte di verità: anche potenze imperialiste come l’Europa, la Cina e la Russia svolgono il loro ruolo devastante nei confronti del pianeta, in uno scenario dove la logica della guerra è assolutamente complementare a quella che muove la devastazione ambientale, in quanto entrambe conseguenze dirette del sistema di produzione capitalistico.
Anche la situazione interna dell’Italia è caratterizzata da provvedimenti del governo che colpiscono il lavoro, l’ambiente, i servizi essenziali e le conquiste civili.
L’opposizione sociale si trova a fare i conti con provvedimenti e comportamenti liberticidi da parte del potere costituito, in vista di una situazione che si fa pesante: sia perché non ci sono prospettive alla ripresa economica come i recenti dati ISTAT dimostrano, sia perché potrà essere necessario fronteggiare una opposizione che, sia pure divisa e localizzata, esiste e si manifesta a livello sindacale e sociale.
Non bisogna poi sottovalutare che la mutazione degli assetti produttivi e la medesima configurazione di classe conseguenti ai grandi processi di ristrutturazione e allo sviluppo tecnologico, hanno obiettivamente influito sulla coesione sociale e sulla disponibilità alla lotta delle classi subalterne.
E’ necessario ripartire con il conflitto tra “capitale e lavoro” per tornare a vincere: difesa e tutela degli interessi e dei diritti delle lavoratrici, dei lavoratori e delle classi subalterne; opposizione alla guerra, all’imperialismo, al militarismo, alla repressione statale del dissenso e delle lotte e ai rigurgiti fascisti in una prospettiva internazionalista; difesa dell’ambiente dall’aggressione capitalista; difesa delle libertà individuali e collettive per il generale rilancio della qualità della vita.
E’ su questi obiettivi che è possibile iniziare un lento ma indispensabile intervento per unificare oltre al mondo del lavoro in tutte le sue articolate componenti, anche le vaste realtà dei movimenti di massa giovanili e studenteschi; delle pensionate e dei pensionati; i comitati antimilitaristi; quelli per la difesa dell’ambiente, delle donne e per la parità e libertà di genere, in un fronte sociale di classe.
Sono questi gli obiettivi che devono orientare il nostro lavoro politico.
Seguire quindi l’evoluzione dei sistemi produttivi, cogliendo l’invarianza tra dominati e dominanti, che non è stata superata dalle tecnologie e offre la possibilità di generalizzare le lotte con settori sociali che agiscono anche fuori dalla produzione di merci e servizi.
La prospettiva risiede dunque nella capacità di generalizzare le lotte in senso internazionalista, per evitare la subalternità ai rispettivi imperialismi.
Ma per realizzare questo ambizioso obiettivo strategico sono necessari livelli di organizzazione politica capaci di creare una nuova generazione di militanti della lotta di classe.
Alternativa Libertaria/FdCA