“Ci sono giorni che pesano come macigni”…

Il sistematico genocidio della popolazione civile palestinese ad opera del governo israeliano e dell’IDF, si realizza nella quasi totale subalternità dei governi dell’Unione Europea ai voleri non negoziabili dell’imperialismo statunitense. Gli USA sono infatti il principale sostenitore del governo di Israele, delle sue mire espansionistiche e dei suoi crimini conseguenti in una delle aree più infuocate del pianeta. Questi intenti di sanguinoso dominio imperialista non avevano finora trovato un’opposizione di massa così come si è manifestata in questi giorni in Europa, nel mondo e anche nel nostro paese, laddove mobilitazioni inizialmente episodiche sono andate assumendo caratteristiche inedite per la quantità, la qualità e la diffusione delle proteste. Nel nostro paese la cartina al tornasole di queste mobilitazioni sono stati tre scioperi generali che si sono susseguiti in sole due settimane: il primo, è stato frettolosamente indetto dalla CGIL per il 19 settembre senza porsi il problema di convergere con quello già indetto da alcune organizzazioni del sindacalismo di base per il successivo 22. Ma la decisione della CGIL di muoversi in autonomia si è rilevata inopportuna facendo sì, anche per i limiti imposti dalla legge 146/90, che sullo sciopero del 22 convergessero numerose iscritte e iscritti alla CGIL registrando così un indiscutibile successo di quella mobilitazione, oltre a significative manifestazioni in numerose piazze d’Italia. Infine lo sciopero del 3 di ottobre, che ha visto oltre alla rinnovata partecipazione delle sigle del sindacalismo di base anche quella della CGIL, che questa volta non ha potuto ignorare la forte volontà unitaria interna scaturita dallo sciopero del 22, dando luogo a una mobilitazione così come non si verificava da decenni caratterizzata, soprattutto, da una grande e diffusa presenza delle giovani generazioni, di studentesse, di studenti e, in generale, del mondo della scuola, una mobilitazione che il giorno dopo è stata confermata in tutta la sua vastissima estensione dalla manifestazione nazionale unitaria del 4 di ottobre a Roma.

“Piazze piene urne vuote”

Questa celebre esternazione di Pietro Nenni, autorevole dirigente del PSI (Partito Socialista Italiano), pronunciata all’indomani della sconfitta del “Fronte Popolare” alle elezioni politiche dell’aprile del 1948, è stata da più parti stucchevolmente rievocata in occasione delle recenti mobilitazioni contro il genocidio operato in Palestina da parte del governo Natanyau, mobilitazioni che si sono distinte per un’elevatissima e inedita partecipazione soprattutto giovanile, alla quale viene artatamente contrapposta la crescente “fuga dalle urne”, così come le recenti tornate delle elezioni regionali hanno dimostrato in ultimo anche in Toscana, dove ha votato il 47,73% delle aventi e degli aventi diritto. L’esternazione di Nenni fu la conseguenza di una sconfitta storica, non solo elettorale ma soprattutto politica dove il disappunto, la disillusione e lo scoramento primeggiarono sui contesti nei quali questa sconfitta maturò, soffermandosi invece solo sulle apparenze secondo la più genuina e omissiva prassi riformista. Infatti, se alle elezioni politiche dell’aprile del 1948 le piazze piene erano indubbiamente quelle del “Fronte Popolare” costituito dall’unità PSI – PCI (Partito Comunista Italiano), un’unità per altro alquanto controversa, le urne dell’epoca non potevano certo dirsi svuotate dato che alle medesime elezioni votò il 92,19% delle aventi e degli aventi diritto e la DC (Democrazia Cristiana) da sola, ottenne quasi la maggioranza assoluta dei voti. Quindi la citazione del Nenni, per quanto “a effetto”, rimase fortemente condizionata da una sorta di “giustificazionismo” proprio perché il problema rilevante non era certo “l’astensionismo” in se, ma il fatto che la “gente” all’epoca continuava in massa a votare DC.

L’attuale movimento contro la guerra e la fuga dalla urne

L’abbiamo fatta un poco lunga perché a distanza di oltre 77 anni dai fatti sopra accennati c’è ancora chi, evidentemente, utilizza antichi e suggestivi espedienti da contrapporre al manifestarsi di un movimento sociale e di massa inedito, che torna a esprimere in Italia e in numerosissimi altri paesi, contenuti politici dichiaratamente e intelligentemente sovversivi, cosa che non si manifestava da svariate decine di anni. Ma, di contro, c’è anche chi ritiene di voler canalizzare queste spinte sociali e, perché no, anche di classe, nelle istituzioni centrali e periferiche dello stato per farsene portavoce lamentando che, proprio la mancanza di un’autorevole sponda politica attiva nelle istituzioni, avrebbe contribuito alla fuga dalle urne, alla crisi della rappresentanza e della democrazia, in una superficiale valutazione del fenomeno “astensionista” quale fenomeno sociale, che uniforma gli schieramenti politici parlamentari. La mancanza di una sponda elettorale esprime e limita anche la strategia compiuta di innumerevoli organizzazioni e componenti politiche della nuova sinistra anche nelle sue componenti storiche più radicali, volte a ricostituire una presenza soprattutto nel parlamento della repubblica, laddove sono assenti dal lontano 2008. Crediamo allora che sia il caso di superare quella che riteniamo una paralizzante deriva istituzionale, avviando un’obiettiva riflessione politica anche tra chi la sostiene elettoralmente ma, per farlo, è necessario partire dalla radice dei fenomeni evitando di scaricare le responsabilità dei propri storici insuccessi sull’astensionismo. La crisi della democrazia borghese e delle sue istituzioni è un fenomeno internazionale, strettamente connesso ai grandi processi di ristrutturazione produttiva intrapresi in questi ultimi decenni dal capitale nella cornice dell’emergere di nuove potenze, che hanno accresciuto la competizione imperialista per il controllo del mercato mondiale. Le guerre, oltre 50 in tutto il pianeta, costituiscono l’espressione di un conflitto mondiale combattuto “a pezzi” e tendono sempre più a generalizzarsi, intrecciandosi anche con i conflitti commerciali tra potenze ormai entrati in una fase acuta e ormai dichiaratamente endemica, dove sempre più si impongono i rapporti di forza militari che stracciano il diritto internazionale: la NATO ha più autorevolezza dell’ONU; la Corte Penale Internazionale è ridotta all’impotenza dal potere sanzionatorio USA. l’Unione Europea vede le sue disarticolate componenti imperialiste giocare partite “nazionali” ormai consunte, dove si afferma il più forte che, come la Germania, ritiene di far fronte alla propria crisi economica riesumando politiche di riarmo, anche a scapito delle altre componenti dell’Unione le quali, come l’Italia, sono messe peggio di lei e comunque, tutte, si ritrovano costrette a una subalternità economica e politica agli USA che intendono far fronte al proprio irreversibile declino a scapito della UE e la sua diplomazia divisa e impotente, riunita solo dalla necessità di non irritare ulteriormente l’interlocutore statunitense, accettando le sue condizioni peraltro non negoziabili in materia di acquisto di armamenti e di energia, di dazi e di altri protezionismi erti difesa dell’economia USA, in una dimensione che si concreta nel fomentare il conflitto con la Russia ben oltre la guerra in Ucraina. Tutto ciò per giustificare le politiche di riarmo condotte nell’interesse dei produttori di armamenti europei e, soprattutto, statunitensi. In altre e più semplici parole: l’UE dovrà quindi pensare alla Russia a sue spese, vale a dire scaricando i costi del riarmo sulla spesa pubblica, proprio per consentire agli USA di occuparsi della Cina. A tutte queste dinamiche del capitare e dei suoi assetti economici, politici e istituzionali, si è contrapposta anche in Italia una un’agitazione sistematica e capillare che ha prodotto una rinnovata e diffusa consapevolezza circa lo sterminio della popolazione civile in Palestina, le politiche del riarmo condotte a spese delle classi subalterne e, in generale, contro le guerre imperialiste, al conseguente militarismo che s’impone nell’intera società e, soprattutto, nel sistema di istruzione di ogni ordine e grado. Ma questo movimento di massa non ha coinvolto solo strati indistinti di popolazione ma anche lavoratrici, lavoratori e rilevanti settori del movimento studentesco e giovanile. Un movimento di massa che, sia pure con inevitabili contraddizioni, sta dimostrando una crescita, sia pure minoritaria, di alcune sue componenti più consapevoli: cresce infatti la consapevolezza e l’urgenza di contrastare il capitalismo nelle sue politiche padronali e governative legandole alla difesa degli interessi di classe. Da qui la necessità di articolare proposte di lotta unitarie coinvolgendo stabilmente il mondo del lavoro e alcune categorie che, come la scuola di ogni ordine e grado si è distinta, in tutte le sue componenti, per la partecipazione alle recenti mobilitazioni. Se poi questa diffusa partecipazione esprime strati sociali e di classe minoritari ma non più irrilevanti, che rifuggono le istituzioni e la scelta elettorale è allora essenziale cogliere l’indicazione che queste componenti esprimono, vale a dire: rafforzare, coordinare e organizzare le consapevolezze che si stanno diffondendo tra il movimento di lotta contro le guerre per estendere il conflitto sociale, saldando la difesa degli interessi materiali delle classi subalterne ognuno contro la borghesia del proprio paese, per tornare a vincere. In questa direzione il lavoro da fare è ancora molto, ma solo così potremo concretamente saldare gli interessi immediati delle classi subalterne con quelli storici del proletariato mondiale, in una lotta internazionalista per il superamento del sistema capitalistico, contro tutte le guerre indotte dall’imperialismo, per la pace e la liberazione dell’umanità e l’ambiente che la circonda.

“Palestina libera dal fiume al mare”

E’ lo slogan forse più gridato in tutte le più recenti manifestazioni da vaste istanze giovanili ed esprime un sincero anelito di libertà. Lo stesso concetto esprime una validità anche nei confronti della guerra in Ucraina e di tutti i conflitti conseguenti al dominio che il sistema di produzione capitalista esercita sull’intero pianeta, proprio perché la guerra è una sua ineliminabile conseguenza. Ma gli slogan devono essere “presi” per quello che sono in quanto non possono certo assumere il ruolo di analisi politiche compiute, e non si può e non si deve pretendere che schiere di adolescenti che si affacciano per la prima volta alla politica invece di gridare la propria rabbia contro un genocidio e il sistema economico, politico e istituzionale che consapevolmente lo scatena, vadano prima a documentarsi al riguardo magari proprio dalle fonti che lo apologizzano che, almeno in questa fase, sono sommerse da una generale opposizione di massa. Ma quale resistenza e quale libertà si prospettano realisticamente per la Palestina? Quali per l’Ucraina, per la Libia o per il Sudan e per tutte le realtà devastate dalle guerre combattute nella cornice imperialista dello scontro tra potenze? Quali i precedenti storici a cui fare riferimento? Una libertà che si afferma in quella “unità di popolo”, così come andò definendosi nei processi di decolonizzazione che si dispiegarono fin dal secondo dopoguerra dall’Asia all’Africa fino all’America Latina? E quali furono le forze sociali egemoni che assunsero il potere in quelle transizioni, costruendo regimi che affrancandosi dall’imperialismo USA caddero sotto il dominio dell’imperialismo dell’allora URSS o di potenze territoriali che, come la Cina, stavano evolvendo verso un capitalismo ancora fragile e incompiuto? In un modesto editoriale non è certo possibile fornire risposte esaustive a domande così complesse: torniamo a sottolineare che l’imperialismo non impiega solo armamenti ed eserciti per esportare, estendere e garantire i propri investimenti capitalistici nelle rispettive aree di interesse: l’imperialismo esporta anche gli assetti del proprio dominio istituzionale. E’ importante ricordare, quale contributo alla riflessione sulla Palestina, l’intera vicenda della decolonizzazione del Vietnam laddove, ci sia concessa l’estrema semplificazione, le componenti di una vivace borghesia nazionale che si poneva alla guida del popolo vietnamita si affermarono, grazie al sostegno dell’URSS, in una realtà sociale disfatta da una lotta ventennale e vittoriosa contro le potenze colonizzatrici dando vita a un regime che, affrancato dall’imperialismo USA, assunse i contenuti del “socialismo reale”, quale configurazione di un nuovo modello di sfruttamento capitalistico delle classi subalterne, che perpetrava il proprio dominio con la dittatura del partito unico su modello sovietico. Anche in quel caso storico la concezione di popolo mascherava la dura ma realistica realtà dei rapporti di forza tra le classi sociali, che vedevano nella borghesia vietnamita la classe egemone che avrebbe assunto il potere in forme istituzionali diverse dalle precedenti, che comunque perpetravano lo sfruttamento capitalistico sia pure ammantato dal falso socialismo. L’intera vicenda del Vietnam vide, fino alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, una poderosa opposizione all’aggressione Usa che coinvolse una grandissima partecipazione anche giovanile che indubbiamente contribuì a concludere la guerra. Ma a questa vittoria non fornì le risposte che questo poderoso movimento esprimeva in una prospettiva di liberazione: anche in quel caso mancarono le premesse e primeggiarono i rapporti di forza tra le classi che videro l’emergere di un nuovo regime capitalistico.

Una conclusione: prima delle risposte formuliamo le domande opportune

Si dirà che “variano i contesti” e certamente ne conveniamo: ma anche in Palestina i rapporti di forza tra le classi interne al popolo palestinese tirano nel senso dell’egemonia di fazioni borghesi per altro divise in componenti nazionaliste, che oscillano tra laicità e fondamentalismo reazionario, oppressivo e oscurantista, esercitando comunque il proprio contraddittorio dominio su di una classe subalterna disfatta da una antica guerra sanguinosa e, soprattutto, totalmente priva di rappresentanza politica e sindacale. Allora: in questa situazione quale libertà si prospetta per la Palestina? Prima ancora delle risposte che è necessario fornire è la formulazione delle domande a essere importante e, avviandoci verso la conclusione di questo nostro editoriale, affermiamo che non ci appassiona la discussione polarizzata tra uno o due stati, in un’ alternativa che comunque non consentirebbe la difesa degli interessi del proletariato palestinese (continuiamo a usare questa definizione perché la riteniamo attualissima), in una prospettiva di emancipazione dal capitalismo che, rimanendo alquanto irrealistica dati i contesti attuali, non ne cancella la sua inevitabile portata internazionalista. Continuiamo a credere e a proporre che l’unità del proletariato e la sua emancipazione avversa le barriere nazionali e nazionaliste e che, per quanto la proposta internazionalista di unità delle lavoratrici e dei lavoratori di tutto il mondo sia l’unica in grado di scongiurare la guerra, è un processo di costruzione che deve essere urgentemente e realisticamente iniziato, soprattutto per coinvolgere le giovani generazioni.

Alternativa Libertaria/FdCA