Quante volte ci è capitato di pensare, vedendo i tanti film che parlano della Shoah: “Ma com’è stato possibile che un tale orrore sia stato commesso nella quasi totale indifferenza generale?”
Ebbene, tra 50-100 anni, coloro che studieranno, leggeranno, rivedranno i documenti del genocidio in corso a Gaza si porranno sicuramente la stessa domanda: “Ma com’è stato possibile, cosa facevano nel resto del mondo di fronte a questa tragedia?”. L’approccio più comune a tale domanda probabilmente è di trincerarsi dietro a concetti assolutori quali “l’inevitabilità del male, degli orrori e della brutalità, elementi sempre presenti nella storia umana”. Si tratta di un approccio più che naturale perché preserva dal porre troppi interrogativi e troppe scomode domande, dal sentirsi chiamati/e in causa: è quel fatalismo che in qualche modo consente di tirare avanti nonostante che attorno a noi ci sia una società in disfacimento. È quell’accettazione, se pur passiva nella stragrande maggioranza dei casi, dello status quo, perché tutto sommato in qualche modo si finisce per andare avanti: ma”ognuno solo, per una strada sua”. Noi invece, da militanti di un’organizzazione politica che aspira a un mondo diverso dall’attuale dove il capitalismo non sia l’unico e ultimo universo possibile, non crediamo al fatalismo, pensiamo che gli accadimenti della storia umana hanno sempre (o quasi) delle cause ben precise, a volte intrecciate tra loro in modo così complesso da essere difficilmente identificabili. Sul genocidio in corso a Gaza ci sono infatti delle cause ben precise, nonché delle responsabilità molto chiare, come più volte abbiamo evidenziato nei nostri documenti e più recentemente nel comunicato “Né con Netanyahu, né con Hamas! ”, pubblicato a ottobre 2023 e consultabile sul nostro vecchio sito (https://alternativalibertaria.fdca.it/wpAL/blog/20 23/11/25/ne-con-netanyahu-ne-con-hamas/).
Così come non bisogna dimenticare che, accanto ai responsabili di questo massacro, ci sono anche degli esseri umani che in quel contesto di guerra, da decenni e non da oggi, si oppongono ai nazionalismi e ai militarismi mortiferi, per abbracciare l’idea di una società in cui persone di diversa estrazione religiosa (e non) ed etnica possano coesistere pacificamente: in primis i Refusnik, giovani che rifiutano di svolgere il servizio militare, ancora obbligatorio per legge in Israele, pagando la loro coraggiosa scelta con il carcere. Come d’altronde accadde anche nella Germania nazista, laddove piccole ma consapevoli minoranze tra loro isolate rischiarono la propria vita per salvare decine di ebrei e di perseguitati politici. Purtroppo al riguardo la storiografia è largamente omissiva e sui principali mezzi di comunicazione è molto difficile trovare la testimonianza di queste storie, proprio perché ci dicono che è possibile scegliere di non essere complici di un sistema che si ritiene criminale. A tal proposito riportiamo in particolare le parole di uno di questi giovani, Yuval Pelleg, che proprio in questi giorni insieme a un’altra diciottenne, Ayana Gerstman, hanno rifiutato l’arruolamento nell’IDF (https://www.pressenza.com/it/2025/07/due-diciottenni-israeliani-finiscono-in-prigione-per-il-rifiuto-di-partecipare-al-genocidio-a-gaza/): “Nonostante tutti i suoi crimini, le nazioni del mondo continuano a rifornire la macchina di distruzione israeliana con armi e finanziamenti. Presto sarò imprigionato per il mio rifiuto di partecipare al massacro e mi appello a voi, popoli del mondo: intensificate la lotta! Unitevi a me e resistete alla distruzione e al genocidio con tutta la vostra forza. Infine, voglio ricordare che qui non si tratta di me. Si tratta della distruzione, delle persone uccise, del dialogo che è stato portato all’estinzione e della giustizia che è stata sepolta sotto le macerie di Gaza.
Mi sforzo di prendere parte a una lotta per la vita, l’uguaglianza e la libertà. In questa lotta, una cosa è chiara: io e l’esercito siamo agli antipodi. Ecco perché mi rifiuto di arruolarmi”.
Proprio nei giorni in cui a Gaza si consumava una delle pagine più orribili della recente storia umana sempre in Medio Oriente, ma a migliaia di km più a est, quelle armi che a Gaza vengono ancora usate su esseri umani in cerca di cibo, venivano invece bruciate in un rogo simbolico da militanti del PKK. Lo storico evento, che segue l’appello di Ocalan alla fine della lotta armata e il successivo scioglimento del PKK decretato dal congresso del partito, si è svolto l’11 luglio; il nesso con ciò che succede a Gaza è stato richiamato da Bese Hozat, co-presidente dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), che leggendo nel corso della cerimonia il comunicato del “Gruppo per la pace e la società democratica” ha sottolineato come la distruzione volontaria delle armi del PKK costituisce un “gesto di buona volontà e determinazione” e che “vista la crescente pressione fascista, lo sfruttamento in tutto il globo e il bagno di sangue in corso in Medio Oriente i nostri popoli hanno più che mai bisogno di una vita pacifica, libera, uguale e democratica”. Sicuramente vi sono molti altri fattori che hanno portato il PKK a compiere questa scelta, tra cui non si può non citare la presa d’atto del divario ormai incolmabile in termini di tecnologie militari tra lo stato turco e le militanti e i militanti curdi. Ad ogni modo si tratta comunque di una scelta coraggiosa con cui il movimento curdo cerca di uscire da una situazione di stallo, dimostrando ancora una volta di costituire oggi una delle prospettive rivoluzionarie più avanzate a livello mondiale, probabilmente insieme all’esperienza zapatista in Chiapas, portata caparbiamente avanti dall’EZLN tra mille difficoltà.
"Proprio nei giorni in cui a Gaza si consumava una delle pagine più orribili della recente storia umana sempre in Medio Oriente, ma a migliaia di km più a est, quelle armi che a Gaza vengono ancora usate su esseri umani in cerca di cibo, venivano invece bruciate in un rogo simbolico da militanti del PKK"
E allora mentre noi in Europa registriamo un continuo peggioramento delle condizioni della classe lavoratrice, con il disfacimento di ogni significativa opposizione politica e sociale, ciò che succede in Kurdistan deve stimolarci a trovare nuove forme e nuovi linguaggi, per ripensare le modalità di trasformazione rivoluzionaria. E’ sempre più urgente uscire dal disorientamento e dall’immobilismo: è sempre più necessaria una proposta politica e sociale internazionalista, che superi le ormai consunte barriere corporative e nazionali, che sappia tornare in sintonia con la classe lavoratrice e con gli strati proletari di tutti i paesi per porre un efficace argine alla degenerazione del sistema capitalistico in una competizione tra potenze imperialiste foriere di sanguinosi scontri armati per il controllo del mercato mondiale. Una proposta che sia in grado di dare risposte anche organizzative a un diffuso ma ancora evanescente sentimento di indignazione per trasformarlo in consapevolezza generalizzandolo a contesti più ampi, combattendo la rassegnazione e iniziando a vincere le sfide che il mondo contemporaneo ci pone.
Alternativa Libertaria/FdCA