Imparare dalle sconfitte

La sconfitta maturata con il referendum dell’8/9 maggio è non solo evidente ma anche completa. Essa travalica infatti il piano puramente sindacale per assumere una valenza evidentemente politica, proprio perché si configura come una vittoria del nemico di classe nelle sue multiformi configurazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali. E’ una sconfitta destinata a causare gravi conseguenze sia in termini di recrudescenza dell’offensiva padronale e governativa alle condizioni di vita delle classi subalterne e nei confronti dei diritti civili e della libertà, sia sul piano dell’organizzazione sindacale e del suo ruolo strategico, in una fase tra le più complesse e drammatiche vissute dal secondo dopoguerra.
E’ risultato evidente che se l’azione sindacale si sposta sul terreno politico, partitico e istituzionale tralasciando la difesa intransigente delle condizioni di vita delle classi subalterne, se all’azione sindacale si sostituisce l’intreccio con il parlamentarismo così come è avvenuto nel corso della campagna referendaria, la sconfitta è certa.


Scegliendo lo strumento del referendum, Landini e il gruppo dirigente della CGIL hanno avuto in primo luogo la pesante responsabilità di aver lasciato nelle mani del nemico di classe le sorti di milioni di lavoratori e di aver lasciato sgonfiare nei mesi scorsi il successo dello sciopero generale di novembre senza costruire passaggi di lotta che mobilitassero i lavoratori almeno fino al referendum.
La CGIL, che aveva promosso quattro dei cinque referendum, esce quindi indebolita dall’intera vicenda referendaria che si è intrecciata con le manovre del “campo largo”, cioè con quei partiti che nei precedenti governi di centro-sinistra si sono distinti per l’adozione di politiche che hanno scaricato i costi della crisi interamente sulla nostra classe. Una simile alleanza ha evidentemente influito sulla volontà e sulla capacità della CGIL di fronteggiare l’attacco senza precedenti della borghesia ai minimi vitali dei lavoratori, per cui articolare una significativa opposizione al governo e al padronato sarà d’ora in poi ancora più difficile.
Sembra proprio che la sconfitta del referendum sulla scala mobile del 1984, promosso dal PCI in seguito alla rovinosa conclusione della vertenza FIAT del 1980, non abbia sedimentato nessuna seria riflessione. Il padronato e il suo governo, quello del socialista Craxi, ne uscirono vincitori, segnando un punto di non ritorno nell’affermazione delle politiche neoliberiste e antioperaie.
Ulteriore conferma della vacuità della strategia referendaria fu il referendum del 2003 sull’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, proposto da Rifondazione Comunista con l’allora segretario Fausto Bertinotti, che vide anch’esso una rovinosa sconfitta raggiungendo solo il 25% dei consensi. In quella occasione il governo di centro-destra, guidato da Silvio Berlusconi per conto di Confindustria, dopo una prima posizione contraria sostenne le ragioni dell’astensione. Astensione sostenuta anche dai moderati del centro-sinistra (la Margherita di Francesco Rutelli, con un ruolo analogo a quello attuale di Renzi e Calenda) e, cosa molto più grave, con solo qualche defezione interna, dai Democratici di Sinistra, allora diretti da Piero Fassino coadiuvato dallo stesso Sergio Cofferati, che aveva da poco lasciato la direzione della stessa CGIL.


A fronte di tali precedenti risulta vacua e del tutto inadeguata la critica volta a stigmatizzare l’indicazione dell’astensione da parte delle forze governative come un “tradimento dei principi costituzionali che fissano il voto come un dovere civico”, mossa sia dalla dirigenza della CGIL che dal Partito Democratico.
Questa ulteriore sconfitta favorirà certamente i settori più concertativi che, ancora ben presenti in CGIL, guardano con estremo interesse alla svolta neocorporativa della CISL e alle componenti più moderate del Partito Democratico, che escono oggettivamente rafforzate dalla vicenda referendaria.
Non ci interessa attardarci nelle analisi dei vari boicottaggi orchestrati dal potere economico, governativo e politico, né nei meandri di quella parte del centrosinistra che adesso si intesta il 30% dei voti per minimizzare la sconfitta. Crediamo che questa sia la conseguenza di una vera e propria deriva istituzionale del sindacato che si è consapevolmente posta in alternativa al conflitto sociale e di classe per mezzo della scorciatoia referendaria.
D’altronde, ancora una volta, la storia esprime coloro che la interpretano. Così il gruppo dirigente neocorporativo della CISL ha spostato anch’esso la sua azione sul piano istituzionale, promuovendo una raccolta di firme per una proposta di legge popolare per “la partecipazione al lavoro” da cui il 14 maggio scorso, con il pieno appoggio dell’intera maggioranza di governo, è scaturita la nuova legge Disposizioni per la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese. A fronte di ciò il gruppo dirigente CGIL, ostentando un alquanto improvvisato movimentismo (in contrasto solo apparente con la sua storica attitudine concertativa e subalternità al quadro capitalistico), si è impegnato nella scelta referendaria depotenziando il conflitto sociale e maturando così una bruciante sconfitta.


Nonostante che anche all’interno della CGIL la scelta referendaria sia stata da più parti ritenuta inadeguata, improbabile e comunque sostitutiva del conflitto sociale e nonostante che queste valutazioni critiche abbiano trovato riscontro anche in numerose altre organizzazioni politiche e del sindacalismo di base, l’opposizione alla deriva istituzionale non ha decollato, è rimasta largamente minoritaria e il conflitto sociale non si è generalizzato a contesti più ampi. E adesso, dopo la sconfitta, sarà molto più difficile riproporlo e condurlo avanti in un contesto unitario. Inoltre la sconfitta è non solo del gruppo dirigente della CGIL, ma anche e soprattutto dell’intero suo tessuto militante che si è generosamente speso nella scelta referendaria.
Queste considerazioni rimandano non tanto alla ricerca di responsabilità che certamente risiedono nei gruppi dirigenti del sindacalismo confederale, responsabilità che è comunque necessario individuare con obiettività e contestualizzazione storica, ma soprattutto sulla reale capacità di incidere dell’intera opposizione di classe, che non è stata e ancora non è in grado di generalizzare il conflitto sociale, superando le logiche autoreferenziali per contrastare efficacemente le tendenze concertative, istituzionali, burocratiche e neocorporative del sindacalismo confederale.

"Come lavoratori e come avanguardie, fuori da ogni approccio paternalistico, abbiamo il dovere di interrogarci innanzitutto sulla condizione soggettiva delle masse e sul dato, confermato dalle urne, di una classe lavoratrice dispersa, disillusa, irretita dai modelli borghesi, in buona misura indifferente e poco consapevole della propria situazione di sfruttamento, poco disponibile al conflitto pur a fronte di una virulenta e pervasiva offensiva borghese che porta un attacco a fondo alle sue condizioni di vita"

Come lavoratori e come avanguardie, fuori da ogni approccio paternalistico, abbiamo il dovere di interrogarci innanzitutto sulla condizione soggettiva delle masse e sul dato, confermato dalle urne, di una classe lavoratrice dispersa, disillusa, irretita dai modelli borghesi, in buona misura indifferente e poco consapevole della propria situazione di sfruttamento, poco disponibile al conflitto pur a fronte di una virulenta e pervasiva offensiva borghese che porta un attacco a fondo alle sue condizioni di vita.
Ciò che è mancato e che manca è un tessuto militante radicato nelle realtà produttive e nei movimenti di massa, in grado di esprimere e costruire istanze unitarie in difesa degli interessi delle classi subalterne e dei settori sociali più deboli e meno tutelati. La sua costruzione è da perseguire in modo non occasionale, ma con una reale consapevolezza strategica che sappia salvaguardare l’unità e l’autonomia dell’intero movimento di classe anche e soprattutto nei momenti più difficili, nei quali si afferma la sconfitta come sta accadendo in questa fase specifica. E’ un lavoro sempre più necessario che parte dalla consapevolezza desunta dalle sconfitte subite dalla nostra classe che hanno ormai sovrastato le sue significative vittorie, determinando così le basi per l’attuale situazione di crisi del conflitto sociale che volge sempre più a favore del capitale. E’ un lavoro necessario, urgente e non più rimandabile.


Alternativa Libertaria/FdCA